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Omelia del vescovo Vincenzo nella Messa Crismale

Oria, 6 aprile 2023 - Basilica Cattedrale

Lo scorso anno, riprendendo la celebrazione della Messa Crismale in questa nostra Chiesa Cattedrale, splendente e luminosa dopo i lavori di restauro e di adeguamento liturgico, - sono certo che lo ricorderete, - ci siamo soffermati sulla necessità della comunione presbiterale quale terreno fecondo per un vero ed efficace cammino sinodale della nostra Chiesa di Oria, comunione tra noi Sacerdoti che ci viene direttamente richiesta dal nostro Maestro: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri” (Gv 13, 34-35).

La mia speranza è che questo anno trascorso ci abbia fatto veramente crescere nell’affetto, nella simpatia, nella solidarietà, nella stima reciproca, nell’amore tra noi Sacerdoti! Perché questa crescita è utile non solo a noi Sacerdoti e al nostro Presbiterio, ma ci è richiesta come testimonianza dai nostri fedeli, cui siamo inviati come servitori dell’amore, ed è, perciò, una necessità imprescindibile: non ne possiamo fare a meno! Ne va dell’efficacia del nostro lavoro sacerdotale, della nostra fatica di servitori dell’amore!

Pur richiamando questo elemento caratterizzante il nostro ministero sacerdotale e la nostra comunione presbiterale, oggi, però, vorrei soffermarmi con voi Sacerdoti su un’altra parola di Gesù, una parola dolcissima, che offre luce e orientamento alla nostra esistenza sacerdotale, e dico “esistenza sacerdotale” perché - lo ricordo - dopo l’ordinazione sacerdotale noi non siamo più solo uomini ma Sacerdoti, vorrei quasi azzardare e dire che, con il dono dello Spirito sacerdotale, è stato modificato il nostro DNA: siamo divenuti uomini Sacerdoti, oramai inscindibilmente, come inscindibile è l’unione in Cristo dell’umanità con la divinità. Ecco allora questa parola di Gesù: “Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore” (Gv 15, 9).

Vorrei che fermassimo la nostra attenzione, amatissimi Confratelli nel sacerdozio, sul nostro amore verso Cristo. C’è un modo speciale, una nostra arte di amare quando noi Sacerdoti ci riferiamo al Maestro ed è necessario riscoprire le caratteristiche di questo sentimento così comune, ma anche così abusato e, vorrei dire, sciupato, ma pur sempre importantissimo che parte dal nostro cuore e prende tutta la nostra esistenza. Interroghiamoci.

Nella nostra giovinezza abbiamo sentito il desiderio intimo e profondo di rendere la sede del nostro amore, il cuore, consacrato al solo amore per Gesù Cristo Maestro. Abbiamo pregato, abbiamo lottato contro ogni tentazione, ci siamo fatti formare perché il nostro cuore fosse esclusivamente, totalmente, fortemente impegnato nell’amore di Cristo. A questo punto del nostro cammino, sia per chi è ancora agli inizi sia per chi ha percorso un lungo tratto di strada nell’amore sacerdotale, possiamo dire di avere ancora questa veemenza, questa dolcezza, questa profondità, questa totalità dell’amore per Gesù Cristo Signore? Lo amiamo ancora come persona viva e presente, Gli siamo legati con tutto il cuore, con tutte le forze e con tutta l’anima? (cfr. Mc 12, 30).

Oggi è il giorno dell’amore, oggi l’amore vero è rivelato al mondo! E questa parola che tante volte abbiamo ripetuto e offerto alla meditazione degli altri, questa parola “Rimanete nel mio amore”, oggi è particolarmente per noi Sacerdoti.

Non vergogniamoci di chiedere al nostro cuore se è veramente capace di amare totalmente Gesù. E sin dal giorno della nostra ordinazione sacerdotale che siamo soliti ripetere: “Ti amo Signore e ti amerò per sempre”, e anche oggi, proprio in questa celebrazione, lo ripeteremo per ben tre volte - “Si, lo voglio. Si, lo voglio. Si, lo voglio” - quando rinnoveremo le nostre promesse sacerdotali. Ma è nella stessa misura, con la stessa gioia, con la stessa capacità di dono, con lo stesso impegno nel sacrificio? È con la stessa pienezza? O l’usura del tempo, che tutti tocca, è passata anche su di noi, sul nostro amore per Gesù Cristo? Col tempo le cose si affievoliscono, come se si diluissero e l’uomo, anche il Sacerdote, scopre di non essere pienamente capace di vivere i propri sentimenti, il proprio amore, con un’intensità durevole. Siamo fedeli agli impegni assunti, lo spero per tutti, ma può subentrare una certa abitudine che toglie l’emozione e la meraviglia degli inizi per i doni che ci vengono messi in mano e per le azioni che compiamo. E l’abitudine ci fa correre anche quando trattiamo quei misteri che un tempo ci meravigliavano e ci esaltavano, quei misteri che, nel tempo della formazione in Seminario, abbiamo tanto desiderato raggiungere ed esercitare. E così quelle parole ricche di grazia e di misericordia che solo come Sacerdoti possiamo pronunciare, quelle parole che sono veicolo di vita eterna e che pur sappiamo portano spesso grande pace ai cuori inquieti di chi gode del nostro ministero sacerdotale, quelle parole passano tranquille sulle nostre labbra e si mescolano con le tante altre inutili parole che siamo abituati a pronunciare e che lo spirito del mondo ci fa dire. E la nostra preghiera, le parole della nostra preghiera, corrono veloci perché ci sono tante cose da fare. È vero, ci sono tante cose da fare e, se ben ci pensiamo, anch’esse possono scaturire dall’amore per Gesù. Ma, in tutta verità, queste cose sono solo esteriori e spesso noi dedichiamo molta energia alla vita esteriore piuttosto che a quella interiore.

Forse ci siamo un po’ profanizzati, forse ci sentiamo un po’ dei professionisti del ministero sacro. Forse l’interesse delle cose esteriori, del riuscire in un’impresa che sia occasione di lode ancorché strumento di evangelizzazione, forse il combattimento con i nostri avversari ci hanno disorientato dal punto focale della nostra esistenza sacerdotale. E così è successo che ci siamo abituati a trasformare ciò che era nostro dovere in nostro diritto, ciò che era servizio in nostro onore, ciò che doveva essere segnato dal segno della croce, cioè dal sacrificio, è divenuto servizio piatto, uniforme e modo comodo di servire il Signore.

Per grazia di Dio quella parola - “Rimanete nel mio amore” – non si è allontanata dal nostro cuore e se anche un po’ di cenere si è adagiata sul nostro amore, però, siamone certi, la brace arde ancora!

Eppure non sarebbe utile né conveniente se oggi, giorno dell’amore, non ci chiedessimo quanto è ancora vera quella parola per noi.

Risuonino nella nostra coscienza quelle tre domande di Gesù a Pietro sulle rive del mare di Tiberiade: “Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?... Simone, figlio di Giovanni, mi ami?... Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene?” (Gv 21, 15ss). Risuonino mentre siamo chiamati a ripetere: “Si, lo voglio”. E, quantunque con grande umiltà, ma anche con grande verità, rispondiamo a Gesù insieme con Pietro: “Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene”. Che vuol dire che nonostante i nostri limiti e i nostri fallimenti, quel rimanere nell’amore di Gesù è il nostro tesoro più grande, anzi, è il nostro vero ed unico tesoro.

Carissimi fratelli nel Sacerdozio, abbiamo un bisogno enorme di questa conferma e di questa energia intima e privata che ci viene dall’amore, e abbiamo bisogno di amare non per consuetudine né per dovere e fedeltà al ministero, ma per espressione viva e personale della nostra anima, perché è la nostra vocazione, è ciò che sostiene e guida la nostra vita.

E poi, quantunque il Signore abbia arricchito il nostro ministero, lo abbia potenziato con la Sua azione e con la Sua presenza reale nei sacramenti che celebriamo, sicché possiamo sostenere con verità che la validità del nostro ministero è ex opere operato, è però altrettanto vero che l’efficacia esteriore, sociale, pastorale del nostro ministero dipende in grande, anzi direi, in grandissima parte dal come noi lo viviamo, dal come lo sentiamo, dal come noi lo personifichiamo, dal modo con cui facciamo parlare il nostro cuore, da quanto ci commuoviamo, ci esaltiamo e godiamo nell’esercizio di questo ministero, tanto da poter sostenere con altrettanta verità che l’efficacia dell’esercizio del ministero sacerdotale dipende anche dall’ex opere operantis.

I nostri fedeli, oggi più di ieri, vogliono che il loro Sacerdote sia un santo Sacerdote, desiderano che sia un testimone, un profeta, un padre ricolmo di amore divino per potergli credere, per seguirlo, per amarlo, per dargli la loro fedeltà.

E così si comprende bene come il nostro ministero sacerdotale dipenda, in gran parte, nella sua efficacia dall’ardore affettivo, oltre che effettivo, della nostra vita spirituale, dal colloquio interiore che riusciamo a mantenere con l’amato nostro Signore Gesù. E anche da questo dipendono le vocazioni di speciale consacrazione, al sacerdozio e alla vita religiosa. Si, anche le vocazioni dipendono dal modo con cui amiamo Gesù!

Un antico detto ci invita a celebrare la S. Messa quotidiana come se fosse la prima e come se fosse l’ultima, con lo stesso affetto, con lo stesso trasporto, con la stessa emozione, con la stessa trepidazione, con la stessa gioia, con la stessa esaltazione, con la stessa meraviglia, proprio perché è un miracolo perenne che avviene per le nostre mani e con la nostra povera voce! Noi dobbiamo essere i primi partecipanti della S. Messa che celebriamo, dei sacramenti che dispensiamo. Non ci accada di essere dei canali asettici in cui la grazia passa e non lascia né tesori né traccia. Dobbiamo sentire in noi che Cristo celebra per gli altri i Suoi misteri di salvezza, ma in noi e con noi e per noi!

E anche i Seminaristi coltivino questi sentimenti di amore per arrivare al giorno della loro Ordinazione con quella necessaria tensione di spirito che dovranno conservare fino all’ultimo giorno della vita.

Avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine” (Gv 13, 1), proclameremo nel vangelo della Messa in Coena Domini.

Nonostante la consapevolezza delle nostre debolezze, è proprio in queste parole dell’evangelista Giovanni il segreto per rimanere nell’amore di Gesù: Lui ci ha amato, e ci ama, sino alla fine, sino alla pienezza. Siamo ripieni del Suo amore e quell’amore non verrà mai meno. Di questa verità dobbiamo avere memoria costantemente grata. E nei momenti di debolezza, di sconforto e anche di peccato, torniamo a questa parola: “Li amò fino alla fine” (Gv 13, 1). Egli, il mio Maestro e il mio Redentore, mi ama sino alla fine, sempre! Sempre! Sempre!

Desidero ricordare don Marco Tatullo e don Mino Serpentino che per la prima volta rinnovano le promesse sacerdotali; don Pompeo Delli Santi, don Martino Gioia e don Giuseppe Leporale che festeggiano in quest’anno i primi 10 anni di ordinazione sacerdotale; don Dario De Stefano, don Salvatore Rubino, don Francesco Nigro e don Giacomo Lombardi che festeggiano il giubileo sacerdotale del 25° anniversario; Don Angelo Principalli, don Giovanni Di Mauro e don Giuseppe Summa che in quest’anno festeggiano il giubileo sacerdotale del 50° anniversario, e insieme con loro, don Pietro Chirico che festeggia il 74° di ordinazione e don Vincenzo Baldari che, festeggiando il 76° anniversario, è il decano del Presbiterio.

Anche a Voi, miei cari Religiosi, Religiose e Laici, chiedo di fermarvi a meditare le parole di Gesù: “Rimanete nel mio amore” e “Li amò fino alla fine” e Vi invito a sostenere, con la responsabilità della preghiera, dell’affetto fraterno e della condivisione ministeriale, la missione dei Vostri Sacerdoti e del Vostro Vescovo. Amen.

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