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Omelia nella dedicazione della Chiesa Parrocchiale di San Giuseppe Lavoratore in Latiano (BR)

Latiano, 22 dicembre 2014

“Gioisca la madre Chiesa, splendente della gloria del suo Signore, e questo tempio risuoni per le acclamazioni del popolo in festa” (Exultet).

Con il cuore ricolmo di gioia saluto tutti voi qui presenti a questa celebrazione per la dedicazione della nuova Chiesa parrocchiale: saluto il Sindaco e le altre autorità presenti; saluto il caro parroco don Antonio e tutti i sacerdoti e i diaconi che concelebrano con me; saluto l’architetto Formosi progettista di questo tempio; saluto i bambini, i giovani, gli adulti, gli anziani; saluto lo scultore Marrocco, autore di alcune opere di questa Chiesa; saluto l’impresa Marullo, in particolare Claudio che ci segue dal cielo, e tutte le maestranze che qui hanno lavorato.

Vorrei che il mio saluto giungesse anche nelle vostre case, soprattutto dove ci sono anziani e ammalati che non possono muoversi, perché anch’essi si sentano partecipi di questa nobile assemblea liturgica e sentano nel saluto del vescovo come la carezza di Dio sulle loro sofferenze.

Mi sono introdotto in quest’omelia con le parole dell’exultet che viene cantato nella veglia pasquale, perché mi sembrano quelle più opportune per esprimere i sentimenti che si dipanano nel mio e, sono sicuro, anche nel vostro animo.

Gioisca la madre Chiesa”: perché? Perché è “splendente della gloria del suo Signore”. È tutta la Chiesa che come madre gioisce questa sera e gioisce perché splende della gloria di Cristo Risorto. Non c’è altro motivo perché la Chiesa splenda se non per la gloria di Gesù. Ma quale Chiesa gioisce e splende? Quella fatta di “pietre vive”, come ci ha ricordato San Pietro. La Chiesa vera, cari amici, è quella fondata sulla fede nel Signore Gesù. Nel vangelo proclamato poc’anzi abbiamo ascoltato la professione di fede di San Pietro: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” e la promessa di Gesù: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa”. Gesù ci ha detto che la Chiesa è costruita sulla pietra, e la pietra è la fede di Pietro. Allora la Chiesa è una comunità di credenti, che professano il Dio vivo ed attestano - proprio come Pietro - che Cristo è il Figlio di Dio, il Redentore del mondo. E Voi, cari Fratelli e Sorelle, siete una piccola parte di questa grande comunità della Chiesa edificata sulla fede di Pietro, Voi che annunziate e professate la fede nel Figlio di Dio e su questa fede basate tutta la vostra vita personale, familiare e professionale. E così siete partecipi del Regno di Dio.

San Pietro ci ha ancora ricordato che per essere un edificio spirituale, un sacerdozio santo e che offre sacrifici spirituali graditi a Dio, mediante Gesù Cristo (cfr. 2Pt 2, 5) dobbiamo stringerci a Cristo. Si, cari amici, il mistero della Chiesa è esattamente questo: pietre vive ma non isolate, preziose ma non indipendenti, pietre congiunte a Cristo e congiunte tra loro. È questa la verità e la forza del nostro essere Chiesa. Una tentazione ricorrente è quella di voler essere “singolari” rispetto agli altri, in qualche modo indipendenti. Ma comprendiamo bene che una pietra, per quanto preziosa e singolare, non sarà mai una Chiesa, un edificio spirituale. È e rimane solo una pietra isolata. Se vuole vincere questo isolamento deve stringersi innanzitutto alla Pietra fondamentale che è Cristo, e poi alle altre pietre. È la sinergia delle singolarità che costruisce la comunione, così come è la sinfonia delle note che compongono la melodia.

Siamo stati costituiti Chiesa-comunione e dobbiamo porre ogni sforzo per vivere ciò che siamo.

Questo tempio, che oggi dedichiamo a Dio, costituisce, al tempo stesso, ciò che siamo e ciò che dobbiamo continuamente realizzare.

Ogni volta che vi passiamo dinanzi, guardando la sua imponenza, dobbiamo ricordare la forza che scaturisce dalla comunione. Tutte le volte che entriamo tra le sue mura, dobbiamo umilmente chiedere a Dio di farci crescere nell’unità, non solo con i cristiani della parrocchia o della città o della diocesi, ma del mondo intero. E quando usciamo da questo tempio, dobbiamo portarci la volontà, l’impegno e l’entusiasmo di porre sempre semi di comunione.

In questo modo, miei cari amici, questa casa di Dio tra le nostre case diventa la casa comune, la casa di tutti e di ciascuno, dove nessuno si sente estraneo o forestiero. Dove chi ha impara a condividere e chi non ha impara ad accogliere.

La bellezza e l’armonia di questo luogo, i suoi spazi magistralmente elaborati, devono richiamarci la necessità che ciascuno contribuisca perché la Chiesa viva sia bella e armonica.

È questo il primo impegno di una comunità parrocchiale che riceve una nuova Chiesa.

Ed ora vorrei richiamare alcuni elementi architettonici per spiegarne il significato spirituale.

Innanzitutto il portale d’ingresso. Non è semplicemente una struttura attraverso la quale passiamo dall’esterno all’interno. Gesù ha detto: “Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo” (Gv 10, 9). Tutte le volte che attraverseremo quella porta dovremo ricordarci che stiamo entrando in Cristo. Mi piace pensare alla porta come alla ferita del costato di Cristo: attraverso di essa entriamo nell’intimità con Gesù. Veniamo in questo luogo proprio per cercare l’intimità con il Signore, quell’intimità che spesso ci dà coraggio nelle sofferenze, nelle malattie, nelle incomprensioni, nelle delusioni, ma ci permette anche di gioire dei buoni risultati familiari, lavorativi, sociali ed ecclesiali. Quell’intimità che ci fa sentire veri uomini, persone complete e soddisfatte. La porta è Cristo, non scordiamolo! Un tempo i pellegrini che giungevano da lontano baciavano gli stipiti delle porte della Chiesa come atto di culto e di amore a Cristo e come ringraziamento per essere giunti a poter entrare nella Chiesa. La porta ci deve anche ricordare il nostro Battesimo: questo, infatti, è la porta dei sacramenti e la porta della fede. Le acquasantiere, che hanno la stessa forma del fonte battesimale, e con la cui acqua ci segneremo entrando in Chiesa, ci riportano alla grazia battesimale e alla necessità della penitenza come lavacro di rigenerazione.

Poi c’è l’ambone. È il luogo dal quale viene proclamata la Parola di Dio; come tale, deve corrispondere alla dignità della Parola stessa.

L’ambone è lì, nella sua nobile struttura per rammentare ai fedeli che la mensa della Parola di Dio è sempre imbandita da quando Cristo, vincitore della morte, con la potenza del suo Spirito ha rovesciato la pietra del sepolcro (Cfr. Benedizionale, n. 1238).

L’ambone è posto di fronte all’assemblea per far sapere a tutti che Dio vuole intrattenersi familiarmente con gli uomini, vincendo ogni distanza per realizzare la Sua prossimità e far risuonare ai nostri orecchi una voce familiare. Proprio così: mentre la voce del lettore proclama il testo, è Dio stesso che si avvicina e discende in mezzo al Suo popolo. Sì, la voce della Parola, infatti, è come la voce dello Sposo che desidera intessere un dialogo d’amore con la Sua fidanzata, suscitando il desiderio dell’incontro personale cui rivolgersi “per vedere la voce” (Ap 1, 10).

Nella prima lettura di questa liturgia abbiamo ascoltato l’esperienza del popolo di Israele quando ritrova il libro della Legge e come si pone dinanzi all’ascolto della Parola di Dio: “Infatti tutto il popolo piangeva, mentre ascoltava le parole della legge” (Ne 8, 9b).

L’ascolto della parola di Dio deve portarci alla compunzione, alle lacrime del cuore, perché mentre Dio ci parla con la Sua Parola, ci svela l’intimo di noi stessi, ci invita a non allontanarci da Lui e dal prossimo.

Mi piace pensare all’ambone come al Monte delle Beatitudini, sacro luogo da cui Cristo ha rivelato la legge nuova del Suo Regno. Ricordiamolo: dall’ambone è Dio che ci parla!

C’è poi il fonte battesimale. È il grembo della Chiesa, dal quale rinascono a vita nuova i figli adottivi di Dio. Dinanzi al fonte battesimale i battezzandi rivivono la drammaticità del diluvio universale, il cammino di Mosè attraverso il Mar Rosso, la visione del Battista al Giordano che vide lo Spirito discendere su Gesù, l’esperienza della Madonna e di San Giovanni sul Calvario, quando dal costato aperto di Cristo sgorgò l’acqua dello Spirito.

Presso il fonte si professa la propria fede per la prima volta. I bambini lo fanno tramite i genitori e i padrini. Allora il fonte è il luogo del nostro primo “si” a Dio, e la visione del fonte deve richiamarci il nostro essere nuova creatura e deve far sorgere in noi la gratitudine al Padre che ci ha liberati dalla schiavitù del peccato.

Il punto d’arrivo in questo tempio santo è l’altare, perché Cristo è l’altare!

Dice San Giovanni Crisostomo: “Il mistero di questo altare di pietra è stupendo; per sua natura la pietra è solo pietra, ma diventa sacra e santa per il fatto della presenza del corpo di Cristo. Ineffabile mistero senza dubbio, che un altare di pietra diventi in certo modo Corpo di Cristo” (In Epist. II ad Cor. Homilia XX).

L’altare è l’elemento centrale dell’economia sacramentale, è il segno e il luogo dell’incontro tra Dio e l’uomo, ed è posto al centro per manifestare una presenza profondamente umana e fraterna, da cui ci viene pressante l’invito: “Venite a mangiare”. Gesù, invitandoci alla Sua mensa, ci fa Suoi commensali.

L’altare è, contemporaneamente, il luogo del sacrificio salvifico di Cristo ed il luogo della Sua convivialità con l’uomo redento. È pietra sacrificale ed è mensa nuziale. Tutta l’iniziazione cristiana converge verso la mensa, perché il pane-corpo che si immola e si fa nostro cibo, diviene “farmaco d’immortalità”.

Ogni domenica, quando partecipiamo alla celebrazione eucaristica, su questa mensa siamo chiamati a deporre tutta la nostra vita: gioie e dolori, ansie e attese, lacrime e sorrisi. E da questa mensa riceviamo il nutrimento per non fermarci nel cammino, per avere la forza di giungere alla nostra patria, per avere la forza di lottare contro il nostro nemico sapendo di avere già la vittoria di Cristo.

L’Ordo dedicationis Ecclesiae prevede che nell’altare siano deposte le reliquie di santi, possibilmente Santi Martiri, perché il Martire è Colui che donando la sua vita per non rinnegare la sua fede in Cristo, ne è divenuto un testimone efficace. In questo altare saranno deposte le reliquie dei Santi Martiri di Otranto, i Quali nel 1480, pur di non rinnegare la fede in Gesù, si fecero massacrare dai Turchi, diventando così testimoni credibili del Signore. Deponendoli in questo altare, intendiamo chiedere a Dio che ogni nostra celebrazione eucaristica ci renda testimoni credibili, capaci di costruire il Regno di Dio tra gli uomini del nostro tempo.

Completano l’arredo liturgico la sede della presidenza e il tabernacolo. La sede della presidenza è orientata verso il luogo dell’annuncio, perché chi presiede l’Assemblea liturgica deve per primo prestare ascolto per poter poi insegnare ed è posta in prossimità dell’altare perché il Presidente, con il suo servizio liturgico opera la santificazione del popolo che gli è affidato dal Vescovo.

Il tabernacolo è il luogo in cui Cristo attende per essere adorato. È il luogo dove si può stare cuore a cuore con il Signore, dove si possono effondere i canti della gioia e le lacrime del dolore. E la sua forma slanciata ci innalza naturalmente verso il Cielo.

Ecco, miei cari, questo è il significato del tempio che dedichiamo a Dio. Abbiate cura, parrocchiani e Parroco, che questa sia sempre la casa di tutta la comunità, la casa comune, soprattutto la casa dei poveri. San Giuseppe, che fu custode premuroso della Santa Famiglia, custodisca questo tempio e questa comunità. Amen.

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